Quindici giorni. Questo il lasso di tempo che ci separa dal momento in cui tutto è iniziato.
Venerdì 21 febbraio. Ecco la data in cui è partita la vicenda che sta portando tutto il nostro Paese a vivere un momento di forte difficoltà. Ma in queste due settimane, oltre che ad assistere alla diffusione del virus, ci siamo trovati di fronte a un altro scenario alimentato dalla cattiva comunicazione del rischio e alla becera e fuorviante campagna disinformativa autoalimentatasi sui social network.
Filo conduttore dei miei pensieri, in questi giorni, è stato il modo in cui sui giornali, in TV e sul web si è parlato di Coronavirus o meglio di SARS-CoV-2, il nome esatto che dall’ 11 febbraio l’International Committee on Taxonomy of Viruses (ICTV) ha scelto per identificare questo virus. Ma ancora più dominante, nella mia testa, è stato il modo in cui le persone hanno percepito questa comunicazione. E, indovinate un pò, lo hanno fatto nel peggiore dei modi.
Tensione, paura, allarmismo, psicosi: queste le sensazioni che ci stanno accompagnando da un pò di tempo e che, sempre più, trovano terreno fertile tra le persone.
Gli attori responsabili di questa vicenda, però, sono tanti, molto diversi tra loro e con diverse responsabilità civili ed istituzionali. Puntare il dito contro un’unica categoria non avrebbe alcun senso e, anzi, alimenterebbe solo focolai di odio e razzismo. Focolai che, purtroppo, abbiamo visto sorgere in diverse parti d’Italia con troppa facilità.
Ma, in tutto questo trambusto, alimentato anche dalle legittime ripercussioni economiche che la nostra Nazione si troverà ad affrontare quando tutto sarà finito (perchè si, tutto questo prima o poi finirà), un ruolo cruciale lo stanno giocando le parole, quelle stesse che noi tutti, ogni giorno, pronunciamo con troppa facilità, a volte senza pensare alle ripercussioni sulla psicologia di chi ci ascolta.
Parole, a volte, decontestualizzate e usate senza cognizione di causa. Sarebbe interessante fare un’indagine di alfabetizzazione scientifica in ambito medico e scoprire quante persone, giustamente, oggi in Italia conoscono bene il significato di termini come focolaio, epidemia, pandemia, sistema immunitario, anticorpi, virus, trasmissione e vettore.
Un’indagine atta non a sminuire la cultura del nostro popolo ma a darci una percezione maggiore dell’efficacia della comunicazione che sta veicolando la diffusione di notizie.
Fatto questo potremmo provare a capire come il contesto stia giocando un ruolo cruciale nell’uso di queste parole.
Le ultime disposizioni governative ci invitano a seguire delle regole semplici: restare a casa, evitare luoghi affollati, lavare spesso e accuratamente le mani. Eppure in molti non le hanno recepite, continuando a svolgere la propria vita come se nulla fosse.
Altri invece le hanno recepite male. “Restare a casa” non necessariamente significa restare chiusi in casa in quarantena. “Evitare luoghi affollati” non necessariamente significa non dovete andare al supermercato per fare la spesa, ma significa “fatelo in maniera responsabile”.
Questo a cui stiamo assistendo è uno degli aspetti più felici della potenza della civiltà e della democrazia che la nostra società si può vantare di aver raggiunto. In un regime dittatoriale oggi, forse, non avremmo davvero la possibilità di mettere il naso fuori la porta di casa.
Ma stiamo attenti. Poter usare le parole non significa assolutamente sputare vergognosamente sentenze sui social network o ergersi ad esperti di virologia, epidemiologia e malattie infettive.
Oggi è vitale restare calmi, dare il giusto tempo al nostro sistema per trovare le strade migliori per risolvere un problema che, a quanto pare, con meraviglia di molte nazioni (ingiustificata in un mondo globalizzato), non è più solo italiano.
Ed è qui che noi, italiani e popolo che ha insegnato per millenni la civiltà al mondo, dovremo essere bravi ad aiutare, anche solo moralmente, chi oggi ci chiama “gli untori”. E dovremo farlo uniti.
Perchè insieme è meglio.